In viaggio nella blockchain

A 13 anni dalla sua nascita, la blockchain resta una delle tecnologie informatiche più rivoluzionarie e meno comprese. Il 2022 segna l’avvio di un’importante evoluzione nel processo distribuito di accettazione che è alla base dell’intero processo.

Tutte le rivoluzioni tecnologiche vengono inizialmente comprese da pochi e maltrattate dai divulgatori. La blockchain, elemento d’innovazione nell’infrastruttura informatica, non fa eccezione.

Proviamo a spiegare sinteticamente di cosa si tratta. La blockchain è una raccolta di dati con associata una marca temporale (in gergo time stamp) ovvero una sequenza di caratteri che rappresentano una data e/o un orario, non modificabile e interrogabile da chiunque.

I dati sono organizzati in blocchi che vengono impaginati secondo un processo distribuito che coinvolge un elevato numero di antagonisti. La raccolta è replicata in svariate migliaia di copie che vengono costantemente aggiornate all’accettazione di ciascun nuovo blocco.

Il processo distribuito di accettazione può essere fatto in diversi modi, dei quali i principali sono due: la soluzione di un algoritmo complesso (PoW, proof of work) o l’adesione della maggioranza dei titoli degli aventi diritto di voto (PoS, proof of stake).

Secondo calcoli più o meno opinabili, la proof of work sarebbe molto energivora, a differenza della proof of stake. Ecco perché sta per avvenire un terremoto nella conversione da PoW a PoS: l’inizio è previsto entro il 2022 con il lancio di Ethereum 2.0 basato su PoS.

Di fatto, la registrazione di dati con validità notarile e interrogabili dall’esterno per verifiche e ottimizzazioni è alla base della vera disintermediazione proposta dal Web agli inizi degli anni novanta. Laddove implementata correttamente, questa soluzione aggiunge potenza e automazione alle specifiche soluzioni. Una pubblicità di quegli anni, però, ammoniva sull’inutilità di avere potenza se si perde il controllo, un rischio che è sempre dietro l’angolo.

Blockchain e criptovalute

La blockchain viene usata in ambito finanziario come registro di partita doppia per evitare errori nel trasferimento di denaro da un compratore a un venditore. In questo uso, la valuta diventa un’alternativa alle valute tradizionali: quelle sono governate da un’autorità centrale, questa invece è decentralizzata.

Per verificare le transazioni, queste valute usano un sistema crittografico, per cui il nome completo che viene loro assegnato è di “cryptocurrencies”, in italiano criptovalute.

Ci informa invece la Consob che: “Il termine si compone di due parole: cripto e valuta. Si tratta quindi di valuta ‘nascosta’, nel senso che è visibile/utilizzabile solo conoscendo un determinato codice informatico (le c.d. ‘chiavi di accesso’ pubblica e privata, in linguaggio ancora più tecnico)”.

Di criptovalute ne esiste un numero enorme, superiore a duemila, ma il loro successo è ovviamente molto relativo.

Le tre blockchain più note sono relative a Bitcoin (criptovaluta, PoW), Ethereum (criptovaluta, nato in PoS, smart contracts) e Algorand (blockchain pura, PoS). Ethereum dovrebbe lanciare la versione 2 passando da PoW a PoS nell’agosto 2022

La Blockchain nelle filiere produttive

Questo sistema di gestione dei dati viene usato sempre più nelle filiere produttive agro-alimentari, con dati originariamente inseriti da operatori umani. Ciascun passaggio di mano o aggiunta di valore viene certificata e memorizzata in un sistema nel quale qualsiasi avente diritto può cercare (“minare” in termine tecnico) eventuali verifiche o occasioni di business in modo libero.

Anche nella produzione industriale si trova una validità di questo approccio: in questo ambito, inoltre, i dati vengono perlopiù prodotti in modo automatico. Ovviamente gli umani possono avere interesse a inserire dati falsi e le macchine possono incorrere in errori.

La blockchain, insomma, non garantisce la correttezza della prima immissione. Favorisce però l’ottimizzazione dell’intero sistema.

Oltre che nei sistemi produttivi e nelle criptovalute, la blockchain ha vasta eco in molti altri campi.

I nomi mediaticamente più citati sono il metaverso, il Web3, gli NFT e le DAO. Alla base del loro funzionamento troviamo i token e gli smart contract.

I token, scambiabili e non scambiabili
Tutto ciò che gira intorno alla blockchain funziona attraverso l’emissione, lo scambio e il ritiro di unità elementari dette token. Un token può essere visto come un codice che funziona su una specifica blockchain. Al massimo livello di astrazione esistono due tipi di token: quelli che possono essere usati come moneta e quelli che non possono avere questa funzione. Il primo è detto fungible; il secondo, per esempio il diritto a una proprietà (anche immateriale), viene detto non-fungible.
Smart contract, il software della catena

Con questo termine s’intende la possibilità di eseguire software specifico che in automatico associa un’azione a un evento.

Se pago la bolletta del telefono con uno smart contract, ogni volta che arriva la fattura il software la paga. Se associo a uno smart contract la proprietà di un oggetto, ogni volta che l’oggetto viene venduto la proprietà passa a un’altra persona. Tutto senza intermediazione, o meglio con la sola intermediazione/esecuzione automatica.

In generale l’esecuzione di questo software in rete ha un costo non trascurabile, quindi bisogna fare attenzione per evitare che un errore di programmazione avvii molte e costose esecuzioni non desiderate.

Non tutte le blockchain permettono l’esecuzione di software con le necessarie garanzie di esecuzione. Per esempio, il Bitcoin si poggia su una blockchain il cui linguaggio di programmazione non permette l’esecuzione di un vero smart contract. Certamente indicare questo software con il nome smart contract genera confusione nei non addetti ai lavori perché, in termini legali, il contratto è tutta un’altra cosa.

La catena del Metaverso

Il metaverso inteso come un insieme di mondi a varia tridimensionalità, consistenti nel tempo e nello spazio e convergenti in un ambiente omogeneo, non esiste oggi e forse non esisterà mai. C’è chi lo propone come futuro tridimensionale dei social network, quindi dell’interfaccia utente, con o senza dispositivi d’immersione (visori, occhiali, sensori/attuatori).

Al momento, esistono svariati mondi singoli, ciascuno con le sue regole, il suo approccio di sviluppo e la sua infrastruttura e ciascuno con le sue regole d’ingresso.

Un obiettivo essenziale per l’esplosione di questo mercato è la consistenza dei beni attraverso più mondi: se acquisto un vestito in un mondo, devo poterlo usare anche in tutti gli altri mondi. Ma al momento questo non è possibile, sia per mancanza d’interesse dei creatori dei singoli mondi, sia per l’assenza di un archivio comune degli oggetti digitali.

La blockchain si presenta come il magazzino ideale per dati e permessi degli oggetti digitali.

La catena del Web3

Il termine Web3 è stato usato per varie schematizzazioni, spesso molto diverse tra loro. Oggi si tende a ritenerlo un’evoluzione del back-end del Web.

In quest’ottica, il Web3 è una rete decentralizzata nella quale la struttura centralizzata (dati + esecuzione) del client/server viene sostituita da una soluzione decentralizzata (blockchain +smart contract) e da un insieme di nuovi protocolli.

In particolare, sul Web3 si evidenzia l’importanza degli smart contract.

La catena degli NFT

Un termine di grande rilevanza oggi è NFT, acronimo di non-fungible token. Può essere usato per schedare indelebilmente su blockchain un artefatto (materiale o immateriale) che può essere ceduto.

Questo termine viene spesso associato a follie più o meno artistiche (come il video del rogo di un quadro di Bansky da 100 mila dollari) che generano interesse mediatico e bolle speculative senza precedenti nella storia.

Ma, al netto di questi aspetti, esistono anche delle funzioni utili.

In maniera semplificata, l’NFT si compone di un artefatto, un link, un software di gestione e memorizzazione delle transazioni e una certa quantità di dati e metadati. Di questi quattro componenti quali possono stare su blockchain e quanti devono starci? Il link deve stare su blockchain; l’artefatto, anche digitale, i metadati e il software (lo smart contract), invece, possono non stare sul registro replicato.

Poiché memorizzazione ed esecuzione hanno un costo, esistono svariate soluzioni intermedie e definitive, o anche temporanee, che permettono di ridurre questi costi al minimo possibile.

DAO, le organizzazioni digitali

Il concetto di smart contract può essere ampliato fino a gestire un’intera organizzazione. In questo caso, lo smart contract si chiama autonomous agent. L’attività così gestita si chiama DAO, Decentralized Autonomous Organization. Non ci sono livelli intermedi e il codice dell’agente è verificabile pubblicamente da tutti.

La DAO esegue l’insieme di regole codificate nel suo software al momento della sua creazione. Le azioni sono gestite con votazioni tra gli aventi diritto, che sono possessori di token di voto (generalmente su standard ERC-20). Ovviamente, una distribuzione mirata dei token indirizza comunque votazioni e comportamenti dell’organizzazione.

Una lista delle DAO la si può trovare sul sito deepdao.io/organizations.

Per estensione del concetto, l’autonomous agent viene spesso indicato direttamente come DAO: codifica i suoi atti su blockchain e può far uso di criptovalute. Per la maggior parte, i software DAO girano su Ethereum, ma altri girano su EOS e Cardano.

In teoria, un software DAO gestisce un’organizzazione con regole pure (quelle del software) e secondo una democrazia diretta (derivante da una distribuzione dei token di tipo statistico). Sulla carta presenta un grande vantaggio sulle gestioni tradizionali.

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