Stufo di leggere le fantastiche corbellerie che si raccontano sui successi dell’AI nostrana e del declino della produzione di auto in Italia, ieri sera ho deciso di andare a letto prima. Incredibilmente, ho fatto un sogno che in parte ricordo.
Mi sembrava fosse ambientato oggi, a metà 2024. Per strada si vedevano molte automobili elettriche prodotte in Italia con una filiera nazionale, così buone che si esportavano anche altrove nel mondo. La capacità produttiva italiana per le auto, di circa 1 milione di pezzi all’anno, era quasi completamente impostata su filiere locali.
Dalla filiera nazionale ai chip europei
Certo le scocche venivano realizzate con acciaio prodotto in Italia. Soprattutto, i chip erano progettati e prodotti in Italia, per un totale di 1 miliardo di euro all’anno (circa 1.000 euro di chip per auto) prodotti nelle varie fabbriche italiane situate in Piemonte, Veneto, Abruzzi e Sicilia, qualche volta con accordi in Paesi amici. I dati personali e sociali gestiti da queste auto erano del tutto sicuri, perché su ciascun veicolo venivano gestiti da un secure device a brevetto italiano, prodotto in Europa e rivenduto all’estero.
Certo, i dati dall’auto dovevano essere trasmessi altrove per sviluppare l’elaborazione in tempo reale e storica. Ma anche in questo caso, il controllo era totale: il cloud di memorizzazione ed elaborazione era affidato ad una rete di cloud gpu provider italiani, interamente a tecnologia europea. Le CPU e GPU erano quelli della European Processor Initiative, i chip AI per inferenza venivano progettati specificamente e momentaneamente acquisiti da fabbriche poste in Germania, infine l’assemblaggio dei chiplet era fatto con tecnologie Siemens. Le migliori memorie le compravamo in Giappone, dove l’iniziativa Rapidus aveva funzionato molto bene.
Ora che ci penso, nel sogno non si parlava mai di AI, segno che questa tecnologia aveva superato i problemi iniziali e la confusione dettata dall’hype mediatica ed era uscita dalle mani dei chiacchieroni, tornando ad essere utile, ben regolata e quindi invisibile.
Batterie italiane e francesi
Tornando alle auto elettriche italiane, queste bellissime vetture avevano batterie sia al sodio (dalla fabbrica piccarda Tiamat), sia al litio (con una joint venture tra la Northvolt cofondata da Paolo Cerutti e la reggiana Flash Battery di Marco Righi ed Alan Pastorelli).
Nessuno stupore: gli italiani conoscono molto bene la chimica e non si spaventano se si tratta di usarla per fare i conti o per controllare energie. Non mi sorprendevo neanche nel vedere che tutte le batterie venissero testate ed assemblate da apparecchiature Comau, azienda da sempre leader nell’automazione, miracolosamente rimasta italiana dopo che il Governo aveva posto la Golden Share sulla sua cessione, più volte ventilata nei tempi precedenti l’azione governativa.
I chip per l’elettronica di potenza continuava a farli la STMicroelectronics in Sicilia, rivitalizzata dalla sapiente accelerazione impressa con i fondi del PNRR. Quell’azienda aveva inoltre continuato a produrre anche pannelli solari per tutti gli usi -comprese le colonnine di ricarica delle auto elettriche di tipo lento -, costituendo un raggruppamento con le tante aziende tedesche che avevano faticato a competere con la Cina.
Piattaforma “Estrema” per la produzione di auto
Sulla produzione del motore elettrico in Italia, purtroppo, non ho sognato nulla. Certo ho presente che
per produrre auto oggi si usano le piattaforme, dei software che tengono in considerazione tutti i componenti disponibili e il relativo assemblaggio. Appena sveglio mi sono accorto di non aver sognato neanche questa parte, ma subito m’è venuta in mente la soluzione: mentre si sviluppavano le filiere di produzione, la piattaforma era stata nel frattempo affidata a Gianfranco Pizzuto, al quale era stata concessa (con canone temporaneamente “balneare”) la fabbrica Maserati di Grugliasco (TO), dove produrre la supercar elettrica Estrema Fulminea. In cambio, Governo e investitori avevano chiesto lo sviluppo di una piattaforma a filiera europea, aperta a tutti i produttori italiani con sede e tasse pagate in Italia, che garantisse nel tempo un’elevata qualità della componentistica italiana. Anche questo, benché ad occhi aperti, è un sogno. Finito.
Mi accorgo di aver citato molte persone e aziende, che seguo per miei personalissimi interessi, ma che forse si sono sentite offese da questa affabulata farneticazione. A tutte loro chiedo scusa.
Giunti al termine, vi chiederete di che parlasse questo editoriale. Forse di politica industriale? No, rispondo, parlava solo di cattiva digestione. E allora ho capito: la gricia ubriaca (dove il guanciale viene cotto nel vino rosso) non fa per me! Ordino subito una friggitrice ad aria per le verdure. E forse un’auto elettrica, ovviamente 100% cinese, da un’azienda con sede in Olanda.