Contraffazione o nuova techno-art?

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La storia dell’arte insegna che, anche coloro i quali hanno aperto nuove vie stilistiche e si sono poi rivelati i geni e i maestri che tutti conosciamo e che hanno saputo ritrarre con la loro pittura epoche, società ed emozione umana, hanno spesso attinto a elementi estetici, tecniche e riferimenti culturali di altri periodi e di altri artisti. Insomma un continuo rincorrersi e rigenerarsi, nell’evoluzione della pittura, di riferimenti stilistici che poi, quando il genio arriva, diventano originali nel tratto e nel concetto.

Oggi, l’esasperazione di questo criterio la troviamo nella diffusione dell’AI generativa applicata all’arte, l’AI Art, basata su programmi (il più noto è Dall-E2 di OpenAI, la stessa del più famoso ChatGPT) con algoritmi sviluppati e istruiti allo scopo di imparare, da descrizioni testuali, a riconoscere le diverse tecniche pittoriche, scuole, paesaggi, ritrattistica, stili creati nei vari secoli, studi di colore, ecc. Lo scopo è quello di creare opere “originali” basate sull’analisi di questi dati. Il sistema riceve dall’utente la descrizione verbale del tipo di opera che si vuole venga creata e in un match tra le istruzioni ricevute e le classificazioni apprese in grandi dataset esplorati genera l’immagine conseguente. Questo modo di procedere, oltre a un evidente tema legale relativo alla corretta raccolta di informazioni e alla violazione dei diritti di autore, sta suscitando anche un dibattito sul piano culturale in merito al reale valore artistico dell’opera. Qual è il grado di creatività di un algoritmo che basa il proprio funzionamento sull’emulazione e la rielaborazione di stili esistenti? E il risultato finale è considerabile opera d’arte? Ha una propria dignità autonoma oppure, nella scrittura dell’algoritmo e nella formazione del sistema, l’artista già inizia la costruzione di una propria forma d’arte?

Si potrebbe obiettare che l’assenza, in un sistema di AI, di empatia, emozioni e tutto ciò che caratterizza l’iter creativo dell’artista, talvolta sofferto, molto spesso frutto del proprio vissuto, non possa portare alla generazione di un’opera considerabile “arte”. Tuttavia, come la storia della tecnologia insegna, quest’ultima viene spesso plasmata dall’interazione con l’essere umano, ne è spesso frutto ed emanazione diretta. Questo rapporto stretto tra intelligenza artificiale, sviluppo algoritmico e formazione di sistema ha in sé elementi di sinergia e simbiosi uomo-macchina che dovrebbero farci riflettere. È forse semplicistico dire che il sistema non ha anima e di conseguenza non può produrre nulla di artistico. Quanta conoscenza, esperienza, visione e aspettativa dell’artista viene trasferito in un sistema di AI che potrebbe diventare nuovo strumento di arte e di espressività umana, meno controllata direttamente dalla persona ma pur sempre emanazione della nostra cultura, pensiero, emozione ed esperienza?

Personalmente, al netto delle degenerazioni fraudolente che caratterizzano l’attuale fase “far west” dell’intelligenza artificiale, sono più propenso per la seconda tesi, pur con molte riserve. Nel frattempo, con un’azione meritevole ma credo scarsamente risolutiva, ecco arrivare Nigthshade. Sviluppato da un team di ricercatori della University of Chicago guidato dal professor Ben Zhao, lo strumento consente agli artisti di poter aggiungere modifiche invisibili ai pixel delle loro opere prima che vengano pubblicate sul Web. Se il quadro fosse quindi inserito in un set di opere di formazione per un sistema di AI, questo determinerebbe, a causa dell’introduzione di elementi di caos non prevedibili dall’algoritmo e dai sistemi di machine learning, la rottura del modello di riferimento. Un deterrente, hanno dichiarato i ricercatori, contro la violazione da parte delle aziende produttrici di sistemi di AI, del copyright e della proprietà intellettuale degli artisti. Ma chi ricerca questa contraffazione? Mercanti senza scrupoli? Trafficanti in cerca di facili guadagni? Altri potenziali artisti che vogliono sperimentare nuove vie creative ma infrangono diritti? La questione resta aperta. La soluzione lontana.

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Stefano Uberti Foppa
Stefano Uberti Foppa
Giornalista professionista, è stato direttore della rivista e del portale ZeroUno per 22 anni. Inizia a occuparsi di giornalismo nel settore informatico nel 1981, partecipando all'avvio della sede italiana del settimanale Computerworld. Nel 1987 passa al mensile ZeroUno, edito da Arnoldo Mondadori Editore, di cui nel 1997 assume la direzione insieme a quella del settimanale PcWeek Italia. Fonda nel 2006 la casa editrice Next Editore, poi confluita, nel 2017, nel Gruppo Digital360. Si occupa dell’analisi dell’evoluzione digitale sia in rapporto allo sviluppo di impresa sia all’impatto sui modelli organizzativi e sulle competenze professionali ed è oggi opinion leader riconosciuto nel settore Ict in Italia.

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