MultiCloud computing, destinazione futuro

Il multicloud può essere la porta verso un paradigma che, grazie ad un serverless open source e gestito, rende cloud-native qualsiasi applicazione legacy, anche in private cloud

Il futuro è già in sperimentazione in molte aree del mondo. Come disse lo scrittore di fantascienza William Gibson, infatti, il futuro esiste già, ma non è equamente distribuito per il mondo. Guardando le applicazioni più avanzate, è facile prevedere che le eccellenze d’oggi saranno la normalità di domani, quando il multicloud diventerà ancora più integrato e automatizzato.

L’avvento dei container

Ovviamente il multicloud ha anche degli svantaggi strutturali. La maggior eterogeneità complessiva comporta che la sicurezza e la governance siano più complicate. Anche la resilienza, ovvero la capacità di resistere a stress imprevisti, è minore rispetto a un sistema più omogeneo.

Proprio l’omogeneità e la maneggevolezza del sistema da parte dei developer è al centro di una nuova rivoluzione. Già oggi, la crescente adozione di tecnologie come i container rende possibile individuare unità di lavoro che possono essere eseguite indipendentemente dal sistema operativo e dal provider, al contempo offrendo una grande semplicità nell’automazione e nella scalabilità.

Cloud-native private cloud

Belli e impossibili, i container sono belli come principio e impossibili da gestire ad alto livello. Il futuro del cloud, che ha già un grande presente, si chiama Kubernetes. Visti da Kubernetes, i tanti computer connessi in cloud sembrano un solo computer di grande capacità. Per fare un paragone forse irriverente, Kubernetes è l’MS/DOS di oggi. La sua visione dei container è vincente per quanto riguarda l’openness, ma è perdente nella complessità di gestione. Ecco perché molti team ICT preferiscono adottare delle interfacce di semplificazione, che per il developer hanno un po’ l’utilità che ebbe Windows per l’MS/DOS.

Non si vive di soli container, certo. Come anticipato sopra, la principale alternativa a Kubernetes è nel serverless, nome fuorviante nel quale l’hardware di esecuzione non è visibile allo sviluppatore, che vede solo le sue linee di codice, e viene allocato (e fatturato) in cloud solo in caso di esecuzione.

Il serverless è ideale per lo sviluppo di microservizi sia nuovi, sia di progressivo svuotamento dei sistemi legacy. Questo approccio sarebbe senz’altro ideale in quanto facile da usare e mini-invasivo per i sistemi esistenti. Ha infatti un ampio mercato, in molte proposte, a partire da Amazon Lambda, ma anche le functions di Azure e Google Cloud. Il problema è che si tratta di soluzioni proprietarie.

Per ottenere il meglio dei due mondi, a suo tempo partì (tra gli altri) il progetto Apache OpenWhisk, per erogare il serverless in modalità open source, non proprietaria. Da quel progetto si sono generate tante soluzioni commerciali, che a loro volta competono con l’altro progetto open Knative (serverless per Kubernetes) e OpenFaas (avviato da Alex Ellis).

Siamo arrivati alla conclusione, ma, come spesso accade nello sviluppo del software è necessario fare un passo indietro. Si parla sempre meno del private cloud, come se fosse una colpa, ma il mercato maggiore è oggi ancora in quel settore. è anche naturale, a pensarci bene: molte organizzazioni -le banche, ma non solo loro-, non possono avere componenti su cloud pubblico, né quindi di cloud ibrido né multicloud reale. Per loro l’unica strada è una soluzione veramente olistica: il cloud-native private cloud, ovviamente attraverso serverless le cui risorse arrivino tramite container.

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