L’inevitabile scelta dell’open innovation

Uno studio Capgemini offre uno spaccato importante di cosa è oggi e soprattutto sarà nei prossimi anni il ricorso delle imprese a ecosistemi di innovazione per reggere la complessità competitiva. Crederci, con investimenti e trasformazioni di processo e culturali verso un’integrazione vera, rappresenta l’unica via per raggiungere flessibilità e capacità di reggere le disruption.

Era il 2003 quando il professor Henry Chesbrough, dell’Università della California, coniò il termine “open innovation”. Da allora si è usata questa espressione per definire la capacità di un’impresa di creare innovazione in modo collaborativo e sinergico con soggetti al di fuori del proprio perimetro aziendale. I modelli studiati e applicabili sono innumerevoli, ma certo è un elemento importante nella capacità innovativa dell’impresa saper integrare soggetti differenti nel proprio modus operandi, affrontando così meglio le disruption del mercato che via via si presentano e dando velocità alla propria risposta.

È diventato un fenomeno strutturale alle aziende. Da quelle che perseguono una open innovation più tradizionale, svolta in prevalenza attraverso feed back continui con clienti e fornitori, a realtà che attraverso una galassia di partner, molto eterogenei per settori, cultura, anche generazione, creano ecosistemi in grado di stimolare l’azienda all’innovazione continua.

Una ricerca Capgemini svolta a livello mondiale a febbraio e marzo 2023 su un campione di 2.000 senior executive di 1000 grandi imprese (con fatturato oltre 1 miliardo di dollari) dei principali settori merceologici che hanno in corso iniziative di open innovation, ci fornisce qualche elemento di riflessione. Lo studio ha compreso nell’analisi anche quei soggetti, 500 tra start up, università, aziende di venture capital e realtà non profit, che rappresentano il bacino di riferimento del sistema esterno dell’innovazione di impresa.

Crederci e agire con decisione

Il sistema di open innovation acquista importanza strategica soprattutto in momenti di forte volatilità e di discontinuità come quello attuale. Tuttavia la messa a punto di un sistema sinergico virtuoso è tutt’altro che semplice, complice le strutture organizzative e culturali delle imprese, spesso rigide e refrattarie ai cambiamenti e cresciute nella logica a silos autoreferenziati poco collaborativi. Per contro se la caratteristica primaria dei soggetti esterni preposti all’innovazione è la velocità e la destrutturazione organizzativa, unitamente a una diffusa debolezza finanziaria, il rischio che questi soggetti vengano intesi come elementi esterni e soprattutto sperimentali e non siano avviati verso un reale processo di integrazione per la realizzazione di prodotti e servizi innovativi, è molto alto e diffuso. Corporate accelerator, incubatori, corporate venture capital, venture clienting, crowdsourcing, sono alcuni approcci adottati dalle aziende per sondare estensioni del proprio business in aree nuove e potenzialmente rischiose, ma la fotografia che emerge dalla ricerca traccia un quadro a velocità diverse. Da un lato esistono approcci più tradizionali con circa il 45% delle aziende che ha dichiarato risultati soddisfacenti di innovazione facendo ricorso ai continui feed back dei propri clienti e un 40% provando a innovare insieme ai fornitori. Dall’altro lato, le percentuali si riducono quando vengono analizzati processi di innovazione realizzati attraverso soggetti diversi quali università (33%), cross collaboration con aziende in segmenti diversi o competitor (31%) ed enti no profit (25%). 

Tuttavia quella minoranza (il 22%) che ha dichiarato risultati eccellenti e buoni (c’è un altro 31% “sopra la media”) ricorrendo a ecosistemi, afferma come la vera leva strategica sia un approccio deciso alla collaborazione con realtà esterne. Cosa significa? Esplorare partnership non convenzionali; ricercare un’innovazione attraverso la contaminazione di processi, tecnologie e culture; collaborare con competitor su aree pre competitive (cosa che fa circa il 50% dei leader contro il 36% degli “altri”); lavorare sui processi interni riadattandoli e non solo seguire la tradizionale e più sicura via di rafforzare l’attività della unit R&D che persegue un’innovazione spesso incrementale e lineare. 

Questo approccio “deciso”, segna lo spartiacque tra un’azienda che affannosamente cerca di rispondere all’attuale complessità competitiva e una che invece vuole creare e cavalcare innovazione disruptive, ripensando le proprie strategie di business, trasformando le proprie supply chain, perseguendo strade di innovazione sconosciute quali, ad esempio, la grande corsa oggi in atto verso il raggiungimento di obiettivi di sostenibilità e, attraverso questi, essere in grado di innovare e innovarsi.

Come fare per avere successo

Gran parte delle imprese è d’accordo sull’imprescindibilità di un’innovazione open. Il 75% ha affermato essere cruciale per affrontare le complesse sfide di business, tant’è che circa il 71% prevede di aumentare gli investimenti nei propri ecosistemi. I driver di questa decisione derivano dalla necessità di migliorare la propria offerta e di svilupparne di nuova; disegnare nuovi modelli di business; rendere più efficiente la spesa della propria R&D. E l’evidenza di questi obiettivi ha riguardato ben il 55% del campione, che ha dichiarato di aver incrementato la propria velocità di innovazione; circa il 62% ha migliorato la flessibilità della propria forza lavoro mentre il 60% ha migliorato i propri risultati finanziari con maggiore fatturato ed efficienza operativa.

Le difficoltà non mancano. Soprattutto nell’integrazione operativa tra soggetti tanto diversi e aziende strutturate con processi consolidati. Tant’è che se da un lato il crowdsourcing (hackathon, progetti open source per la raccolta di idee su specifiche problematiche) viene preferito, per il 55%, come strumento per sondare le opportunità ma senza un grande coinvolgimento dei processi e delle strutture di impresa, dall’altro lato gli open innovation labs (innovation hub, centri di eccellenza, spazi di co-creazione in cui confluiscono su progetti congiunti startup, clienti e rappresentanti dell’impresa) comportano difficoltà di gestione.

È infatti un modello citato come preferibile da un 24% ma che ha difficoltà a tradursi in business outcome proprio perché questi laboratori operano in modo verticale e spesso disallineati alle priorità di business dell’impresa. è quindi importante avere la forza di attuare scelte di reale trasformazione quali, ad esempio, adottare approcci diversificati per ogni tipologia di partner; definire e controllare di continuo le metriche che fissano parametri di successo; assicurare la partecipazione attiva, fin dall’inizio del processo di open innovation, dei business team; sviluppare percorsi di inserimento rapido in azienda dell’innovazione derivante dai partner; utilizzare tecnologie di analisi e di collaboration per diffondere nell’intera azienda i risultati di successo.

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