Tanta connessione, scarsa comunicazione

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Premetto che voglio solo sollecitarvi un pensiero e non impegnarvi troppo scomodando sociologi, filosofi e pensatori, come invece avviene per numerosa e importante letteratura sull’argomento. Quale argomento? Quello che accompagna ormai da anni la diffusione digitale a ogni livello, aziendale e personale, e che si ripercuote inevitabilmente su individui e rapporti sociali: più precisamente si tratta dello sviluppo, sempre maggiore nella nostra società, di modelli individualistici a scapito della costruzione, faticosa da gestire ma ricca di variabili da scoprire, di confronti collettivi e di condivisione.

Nessuno, all’alba della prima informatizzazione avrà certo immaginato la portata dell’impatto sociale che queste tecnologie avrebbero determinato in futuro. C’era, all’epoca, buttiamo lì una data, attorno agli Anni 60, un’esigenza di informatizzazione quale prosieguo di una concezione meccanicistica di automazione del calcolo per velocizzare le risposte e affrontare questioni complesse. Poi, nei decenni successivi, è diventato sempre più evidente che questa automazione produceva dati dai quali era possibile ed efficace derivare informazioni per prendere decisioni; finché, in parallelo a una maturazione tecnologica e infrastrutturale del Web, è arrivato Steve Jobs con il suo iPhone e il potere di consentire a chiunque l’accesso a informazioni, di crearne di nuove, moltiplicando all’ennesima potenza il valore dei dati e delle informazioni.

Abbiamo allora gioito per la chimera di una democrazia informativa che consentisse a tutti di esprimersi, di accedere alla conoscenza universale e di accorciare le distanze culturali e sociali. Già pochi anni prima dell’iPhone il cambiamento era incominciato. Ricordate “The world is flat”, il libro best seller del giornalista americano Thomas Friedman (tre premi Pulitzer)? Uscito nel 2005 (due anni dopo sarebbe arrivato il vero tsunami digitale con il primo iPhone Apple) teorizzava il fenomeno della globalizzazione come possibilità di interconnessione economica e sociale a livello planetario. Questo grazie sia al maturare di una serie di fenomeni geopolitici avvenuti (l’ultimo, in ordine di tempo, era stato nel 1989 la caduta del Muro di Berlino e la ricomposizione degli equilibri mondiali, mentre la Cina era nel pieno della sua transizione economica dal socialismo al capitalismo, avviata da Deng Xiao Ping) sia, soprattutto, grazie alla rivoluzione digitale che stava sviluppandosi su scala planetaria a seguito di una prima fase di sviluppo dell’infrastruttura Web.

Il risultato oggi è che abbiamo una connessione globale tra gli individui ma, per paradosso, questa fatica a trasformarsi in un aumento della condivisione; prevale anzi una parcellizzazione individualizzata delle informazioni, una “sartorialità informativa” dove ognuno trova ciò che si aspetta di trovare rispetto ai propri interessi e alla propria visione del mondo. Dove le dinamiche di community, esasperate dal fenomeno dei social media, sono sempre mediate a livello digitale e il vero confronto in presenza, tra persone, diventa più raro e faticoso rispetto a quando la mancanza di connessioni obbligava alla creazione di occasioni di incontro.

La tecnologia ha favorito solo in parte la messa a fattor comune e la creazione di azioni collettive. Certo questo è avvenuto in molti campi professionali, da quello scientifico a quello economico e in tanti altri. Ma a livello sociale si sono determinate dinamiche di gruppo, frenesie di appartenenza, urgenze di apparenza per le quali è sufficiente e necessaria la relazione digitale, accentuando così in ognuno di noi, una subdola percezione di solitudine. Da un punto di vista politico, questo è uno dei problemi dell’erosione della partecipazione politica ed elettorale. Sul piano sociale è chiaro che una società strutturata per connessioni e che non privilegia comunione e aggregazione favorisce l’attecchire di dinamiche pericolose, i cui effetti vediamo quotidianamente.

A questo punto siamo a un bivio: o accettiamo il fenomeno digitale da una prospettiva individualista e lo consideriamo come un semplice fattore di comodità e di supporto al mio io oppure se ci sforziamo di guardarlo sotto una lente prospettica vediamo due livelli di criticità futura: il primo risiede in questo isolamento potenziale delle persone che sul piano della crescita caratteriale, culturale e formativa può rappresentare un problema. Portato all’estremo è il fenomeno Hikikomori (“stare in disparte”), emerso di recente come patologia per la prima volta in Giappone, dove alcuni giovani (fascia 14-30 anni), per fragilità e insostenibilità della pressione al confronto e alla relazione collettiva decidono di ritirarsi dalla vita sociale vivendo in una stanza, tagliando ogni contatto con il mondo esterno, genitori compresi, e riducendo i rapporti al minimo e solo attraverso il Web (in Italia esistono circa 100mila giovani in questa situazione). Ma senza giungere a questi estremi è evidente che una modificazione caratteriale di massa orientata a una dimensione sempre più personale e privata può portare contraccolpi, sul piano umano e anche professionale, proprio per la difficoltà a stabilire relazioni positive con gli altri.

Il secondo punto, un po’ più dietrologico ma che con un fenomeno così “disruptive” come il digitale rispetto a modelli sociali e culturali acquisiti non può non essere considerato, è più politico: chi più di altri ha il potere di intervenire sullo sviluppo economico e politico globale (i nomi di aziende e di persone immaginateli voi), ha tutta la convenienza a creare modelli, servizi, scenari e situazioni in cui la dimensione individuale prevale su quella collettiva e sulla volontà di aggregazione per discutere e decidere.

Per lasciarvi allora con una proposta di pensiero “aperto”, la sfida è difficile quanto chiara: sta nella capacità di ognuno di noi di saper sviluppare un pensiero critico che non ceda alla massificazione culturale e consumistica che il digitale, tra le sue mille convenienze, si presta molto bene a veicolare. Quali sono gli strumenti? Un continuo alimentarsi culturalmente, sia come singoli sia attraverso un confronto collettivo, per trovare nuove prospettive di pensiero e affinare capacità di discernimento e di contestualizzazione.

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Stefano Uberti Foppa
Stefano Uberti Foppa
Giornalista professionista, è stato direttore della rivista e del portale ZeroUno per 22 anni. Inizia a occuparsi di giornalismo nel settore informatico nel 1981, partecipando all'avvio della sede italiana del settimanale Computerworld. Nel 1987 passa al mensile ZeroUno, edito da Arnoldo Mondadori Editore, di cui nel 1997 assume la direzione insieme a quella del settimanale PcWeek Italia. Fonda nel 2006 la casa editrice Next Editore, poi confluita, nel 2017, nel Gruppo Digital360. Si occupa dell’analisi dell’evoluzione digitale sia in rapporto allo sviluppo di impresa sia all’impatto sui modelli organizzativi e sulle competenze professionali ed è oggi opinion leader riconosciuto nel settore Ict in Italia.

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