Oggi molti di noi, per lavorare, vanno in ufficio. Ma, per millenni, l’uomo ha fatto a meno dell’ufficio che è infatti un’invenzione relativamente recente.
Alcuni storici sostengono che i primi sono nati nell’antica Roma come spazi in cui venivano condotti lavori “ufficiali”.
Altri preferiscono farne partire la storia nel medioevo con il monachesimo. Furono i monaci medievali che crearono spazi progettati specificatamente per attività sedentarie.
L’ufficio di prossimità
Se però pensiamo alle attività produttive di tutti i giorni, l’ufficio, per un secolo o giù di lì (diciamo da inizio ‘800), non è stato altro che una stanzetta attigua alla fabbrica, al negozio, al recinto del bestiame, alla fonderia, o al piano di sopra del fornaio.
Ciò che lo caratterizzava era la prossimità al luogo di lavoro principale. Tuttavia, a partire da metà ‘900, sempre più dipendenti si sono trovati a non avere prossimità con l’ambiente di fabbrica.
La cultura d’ufficio era diventata un po’ un’entità a sé stante, con dipendenti a supporto di altri dipendenti, a loro volta a supporto di altri dipendenti, il tutto a servizio della produttività di fabbrica, qualsiasi cosa si facesse in questa “misteriosa” (perché molti non ci erano mai stati) fabbrica.
Quando l’ufficio era in prossimità delle attività produttive, l’interazione era primariamente di tipo orale poiché le comunicazioni scritte richiedevano troppo tempo (serviva una settimana per scrivere e recapitare una lettera).
Poi però, ben prima dell’arrivo del computer, grazie a macchine per scrivere e capaci dattilografe, questi tempi si sono accorciati e, quando i ruoli associati agli uffici si sono stratificati, anche l’ufficio in quanto luogo fisico lo ha fatto.
Sono nati gli edifici a torre che davano una casa a un’organizzazione gerarchica del lavoro in continua evoluzione. Abbiamo addirittura dato un nome alla postazione dei manager ben collocata nel flusso delle informazioni e del potere: il cosiddetto “corner office”.
L’ufficio delocalizzato
Si è poi cominciato a parlare, negli scorsi anni, di delocalizzazione: uffici in Occidente e fabbriche in Oriente. Restando in Italia, altre volte le fabbriche sono state spostate in luoghi comunque lontani dalla sede centrale (per esempio nel Meridione) senza quindi che parecchi manager le avessero mai visitate, così come non erano peraltro mai stati in molti outlet di vendita o centri di Ricerca & Sviluppo. E anche se avevano visitato qualcuno di questi luoghi, non erano stati in altri.
La fabbrica e l’ufficio si sono quindi sostanzialmente disconnessi.
Poi è arrivata l’email, che ha reso la comunicazione istantanea e più ricca. La sua asincronia ha modificato il concetto di tempo.
E poi è stata la volta delle video riunioni che ha reso palpabile quanto il luogo fisico non contasse più molto, almeno non per tutti.
In realtà, negli ultimi 2-3 anni, alcuni di noi hanno avvertito un senso di isolamento nel non trovarsi in ufficio.
Tuttavia, è un fatto innegabile che il non stare in ufficio ha reso molti sistemi più veloci ed efficaci.
Ciò che ora tende a riportarci alla situazione di prima non è quindi qualcosa riguardante la facilità di comunicazione o l’organizzazione del lavoro. È la nostra riluttanza ad accettare cambiamenti permanenti.
Alcune organizzazioni hanno interpretato la necessità di lavorare da remoto come un obbligo a organizzare o presenziare infinite video riunioni. Così era tutto rassicurante. Un po’ tutto come prima, solo più high-tech.
Ma altre aziende, quelle più smart e non costrette da vincoli organizzativi, hanno fatto leva sul problema per trasformarlo in opportunità, creando nuovi processi decisionali più agili e fondati su compiti precisi, dando vita a nuovi stili di comunicazione, decisione e azione.
Gli ultimi anni ci hanno insegnato che la velocità è il fattore a maggior potenziale distruttivo per le aziende. Velocità di connessione tra colleghi, fornitori e, soprattutto, clienti. Di velocità nel prendere decisioni, di capire come evitare costi non necessari, di coordinare iniziative.
L’online ha accelerato tutto ciò e noi abbiamo appena imparato quanto, almeno in parte, l’ufficio fisico rallentasse i cambiamenti.
Non fraintendetemi, in quanto creature sociali, molte persone hanno davvero bisogno di un posto dove andare, di una comunità di cui far parte, di un senso di appartenenza. Ma non è affatto certo che il “palazzo uffici” concepito negli anni ‘50 sia il modo giusto per risolvere il problema.
La variabile: il tempo
Abbiamo parlato di velocità. Velocità uguale a fare le stesse cose in meno tempo. Oppure fare più cose (o meglio) nello stesso tempo.
E allora parliamo di come sprechiamo il nostro tempo:
- I giri di tavolo in una riunione formale, in cui ogni persona si presenta, bruciano tempo. Per esempio: 20 persone, 20 minuti se ne sono andati. Il primo che parla ha il vuoto davanti a sé, l’ultimo, ha 19 minuti di ansia per pensare a quel che deve dire
- Analogamente, quando leggiamo le nostre slide PowerPoint, spesso non siamo efficaci, sabotiamo il messaggio che vogliamo far passare e azzeriamo l’opportunità di veicolare i giusti messaggi a gente che abbiamo di fronte a noi
- Quando in una lezione a scuola si chiede di leggere invece di rispondere a domande, si getta al vento tempo prezioso per coinvolgere le persone. È più produttivo assegnare la lettura alla disponibilità dei tempi dello studente
- Quando in una conferenza (vi ricordate le conferenze? Ci si andava una volta …) si è costretti a fare code per la registrazione invece di usare un sistema di check-in online, si brucia tempo
Uno degli evidenti benefici di un mondo interconnesso è l’aver capito che ci sono cose che è necessario o produttivo o efficace fare in serie o tutti assieme, e altre che possono essere fatte in autonomia o in parallelo.
La regola è semplice: tutto ciò che si può fare in parallelo o al nostro ritmo o nel tempo che possiamo o vogliamo mettere a disposizione (ad esempio nella notte, se lo si gradisse), ben venga. E se c’è invece un vero beneficio nel fare qualcosa tutti insieme, così faremo.
Per esempio la maggioranza delle persone ha deciso di preferire la visione di un film a casa (Netflix!) rispetto al cinema.
Ma chi ama il teatro o i concerti rock, non vede l’ora di tornarci. Perché il teatro è stare insieme, in tempo reale, con gli attori lì in carne ed ossa. E ai concerti rock ci si va per ballare e cantare, non per ascoltare.
I manager “tradizionali” sono abituati a dare indicazioni, a dire a qualcuno di fare qualcosa. Ma lo sforzo di creare una modalità per veicolare l’attenzione, l’interazione e la crescita pagano molto di più.
In questo modo, non solo rispettiamo il tempo delle persone, ma anche la loro passione e il loro pensiero.
Cresciamo e li facciamo crescere. E così crescono le nostre aziende e i nostri processi. A volte innovando, a volte sbagliando.
Ma, se siamo manager capaci, sbagliando s’impara.