Alcuni di voi, soprattutto quelli che hanno “accumulato un po’ di primavere”, senz’altro ricorderanno i versi di questa bellissima quanto pungente canzone di Giorgio Gaber, “C’è solo la strada”:
C’è solo la strada su cui puoi contare
La strada è l’unica salvezza
C’è solo la voglia e il bisogno di uscire
Di esporsi nella strada e nella piazza
Perché il giudizio universale
Non passa per le case
Le case dove noi ci nascondiamo
Bisogna ritornare nella strada
Nella strada per conoscere chi siamo.
Partiamo da questa prospettiva per guardare alla diffusione attuale e in previsione futura, delle tecnologie digitali in rapporto all’individuo e alla sua necessità di aggregazione.
È evidente come sia in corso, e questo vale anche per le ultime generazioni, un lento ma inesorabile quanto naturale processo di corretta assimilazione digitale, dopo numerosi anni di “sbornia tecnologica”. Sarebbe infatti a mio avviso riduttivo e superficiale pensare di liquidare il fenomeno digitale oggi, al di là della sua indubbia utilità, come uno strumento di omologazione di massa con il quale, soprattutto i giovani, seguono e vengono guidati verso modelli comportamentali, estetici e morali superficiali, di apparenza e di consumo. Certamente la diffusione del digitale nella nostra società sta portando a dinamiche che se da un lato mirano a valorizzare alcune specificità caratteriali, dall’altro tendono a creare modelli di gruppo, di appartenenza, di appiattimento delle individualità seguendo linguaggi e atteggiamenti coerenti con il gruppo digitale di riferimento.
Peggio ancora, questa digitalizzazione diffusa, che favorisce il condizionamento di massa attraverso l’uniformazione comportamentale del singolo verso il proprio ambiente di riferimento costruendo attorno agli individui zone digitali di conforto e isolandoli nella fruizione di servizi e contenuti, va di pari passo a scapito di una vera conoscenza di sé e del rapporto con gli altri, cose difficili da realizzare e che non si possono costruire agendo in prevalenza attraverso la relazione digitale.
Va detto che questi primi anni di digital innovation, sia a livello di aziende sia come singoli individui hanno generato in tutti noi una forte ubriacatura. Nel mondo professionale la digitalizzazione degli ultimi vent’anni ha spesso significato una corsa estrema all’automazione e all’incremento produttivo individuale mentre solo ora, con l’arrivo di sistemi sempre più intelligenti che si occupano di effettuare task ripetitivi e che apprendono da dati e processi per cercare miglioramenti continui, le persone sono costrette, a ogni livello e sia pur a differenti velocità, a elevare le proprie capacità analitiche, di visione prospettica, di creazione di valore. A misurarsi con modelli organizzativi e relazionali in cui diventa sempre più centrale la capacità di interpretazione e comunicazione umana. Questo vale sia per il top management sia per ogni singolo individuo aziendale che si trova a lavorare con applicazioni sempre più smart e a base AI.
A livello invece di individui che si muovono in una società digitalizzata come la nostra, sta accadendo una cosa molto interessante, i cui segnali vanno attentamente considerati, che ci rimanda direttamente alla canzone di Gaber: quando il cambiamento in gioco è profondo, quando riguarda la vita delle persone, i loro diritti fondamentali e le loro aspirazioni, il rifiuto di cedere alle sopraffazioni, la necessità di ricercare una vita migliore allora… non c’è digitale che tenga e, lo vediamo nei fatti che quotidianamente accadono nel mondo, le persone tornano ad aggregarsi, a confrontarsi, a protestare e a capire chi sono, con chi possono provare a cambiare le cose e il digitale diventa quello che effettivamente dovrebbe essere: uno strumento di networking, di organizzazione e supporto di gruppo, di diffusione di conoscenza, uno strumento utile alle persone nel loro vivere e agire, non uno strumento che le vincola nei loro mondi digitali. Siccome il “Giudizio universale”, il vero cambiamento sociale, la posta in gioco per l’interesse collettivo “non passa per le case dove noi ci nascondiamo” ecco che le persone, tutte, giovani e meno giovani, scendono per le strade, manifestano, protestano, chiedono diritti, non accettano guerre, disparità, eccessi di disuguaglianze, attentati alla Costituzione e alle proprie libertà. Tutte cose che passano nella strada, nella vita vera, non nel rischio del nostro isolamento digitale. Questo rifiuto di passività sta lentamente emergendo, se guardiamo alle trasformazioni del mondo oggi in atto e alla risposta che tutti, anche i giovani, stanno dando, pur nel loro stretto e viscerale rapporto con il digitale. Perché si potrà anche correre il rischio di essere condizionati, di guardare ognuno di noi in metropolitana il proprio universo sullo smartphone, ma quando le cose diventano importanti, difficili, pericolose, la natura umana spinge inevitabilmente verso l’aggregazione, la necessità del confronto, per ritrovarsi, fare un pezzo di strada insieme per capire chi siamo e in quale direzione andare, perché
Il giudizio universale
Non passa per le case
Le case dove noi ci nascondiamo
Bisogna ritornare nella strada
Nella strada per conoscere chi siamo.
C’è solo la strada su cui puoi contare
La strada è l’unica salvezza
C’è solo la voglia, il bisogno di uscire
Di esporsi nella strada, nella piazza.