Il parallelismo che potremmo fare è il seguente: preferireste cenare in un “All you can eat” oppure scegliere un raffinato menù alla carta che meglio soddisfa i vostri gusti?
Forse non sarà un paragone del tutto calzante ma può dare un’idea di come tutti noi, in questi anni, abbiamo utilizzato la tecnologia (e continuiamo a farlo) scrivendo mail, messaggi WhatsApp, scattando foto, scaricando file molto spesso inutili, mai più visti o ascoltati, postando selvaggiamente sui social in una voracità derivata da una convinzione sbagliata: che la tecnologia sia una risorsa infinita e che in quanto digitale il suo consumo “bulimico” non abbia conseguenze, se non minime.
E invece non è così. Peraltro, se c’è qualcosa di positivo che si va affermando in questi periodi di incertezza economica e sociale, di ricerca di sostenibilità dovuta alla percezione chiara delle risorse finite del pianeta, è la nascita di una consapevolezza della necessità di ripensare i nostri stili di consumo e di vita.
E questo deve valere anche per l’IT. Perché? Perché gli impatti di un “consumo” indiscriminato di tecnologia, così come codificato da un modello di sviluppo infinito e di crescita continua, che prevede un consumatore poco responsabile e continuamente sfruttabile, sta creando ormai da tempo scompensi enormi sul piano ambientale.
Il digitale, si diceva prima, ha un impatto relativo proprio in quanto tale? Sbagliato! I consumi di hardware, software, connessioni, cloud platform per nuovi servizi on demand sono in costante aumento, così come il conseguente consumo energetico (di recente uno dei principali provider mondiali di soluzioni cloud ha dichiarato di avere aumentato negli ultimi quattro anni di 4,31 volte il proprio impatto ambientale in relazione allo sviluppo del proprio business). I cicli di acquisto di computer (pc, server, smartphone…) dovrebbero allungarsi mentre, soprattutto sul versante consumer, tendono ad abbreviarsi.
I datacenter, con il diffuso processo di digital transformation in atto, aumentano il proprio impatto ambientale in termini di emissioni di anidride carbonica dovuta al consumo energetico, tant’è che molte sperimentazioni sono state avviate da grandi imprese proprio sul fronte del risparmio e dell’efficienza attraverso nuove tecniche di costruzione e di raffreddamento dei sistemi nonché individuando location un tempo impensabili come in aree a bassa temperatura (sempre più verso i poli) o addirittura subacquei.
Le aziende stanno muovendosi ancora lentamente in questa direzione di cambiamento: sul fronte del riciclo, ad esempio, nel 2019, secondo un recente studio di Capgemini, sono stati generati 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici/informatici a livello mondiale, con un incremento del 21% in cinque anni: ma ben il 90% circa delle imprese ricicla meno del 10% del proprio hardware.
È un meccanismo, quello del consumo indiscriminato di digitale (molto spinto anche dal lato consumer), che si ripercuote, neanche a dirlo, sulle aree più povere del mondo. Costruire hardware significa ricorrere a plastiche (ricavate da petrolio), metalli e minerali rari estratti spesso in aree povere e sfruttate, carenti di regole nel mercato del lavoro e vincoli ambientali, in un saccheggio, a noi lontano, delle risorse naturali.
Nei sistemi di raffreddamento dei server e dei mainframe vi sono additivi chimici. Il vanadio (bronzo di ossido di vanadio), per esempio, è un metallo raro attualmente usato nella produzione di acciai e leghe metalliche che per le sue proprietà di conduzione potrebbe essere sfruttato in un futuro non troppo lontano in sostituzione del silicio nei circuiti elettrici allo scopo di aumentare la velocità di commutazione dei processori e di conseguenza la velocità di trasferimento e memorizzazione dei dati. O usato anche nelle batterie di flusso (al vanadio) per lo stoccaggio di energia di grandi reti elettriche. Se, come sembra, questa direttrice di applicabilità sarà confermata, le attuali miniere (in Africa, Cina, Brasile e Russia tra i principali paesi produttori) non saranno in grado di soddisfare la domanda.
È evidente come la velocità dell’evoluzione tecnologica sia in antitesi con i tempi naturali e non è ormai più possibile ignorare questo aspetto. Serve un rapido cambio di paradigma, a cominciare da una progettazione “by design” che focalizzi il recupero facile dei componenti dei sistemi, il facile smaltimento, il prolungamento della vita di utilizzo. In Francia, per esempio, dal gennaio del 2021 è stato introdotto l’obbligo per alcune categorie di prodotti (elettrodomestici ed elettronica), di riportare l’ “Indice di riparabilità”.
Le abitudini di consumo di file e di digitale devono spostarsi dalla produzione indiscriminata di Gbyte a una scelta consapevole e a nuove modalità di utilizzo di foto, pdf, file audio-video, con l’attenzione a un “cleaning” periodico per liberare cloud server e quindi ridurre l’emissione di gas serra.
In pratica, così come stiamo incominciando a prestare attenzione ai consumi di acqua, gas, plastiche, carne, viaggi aerei e quant’altro, mettiamo sotto la nostra attenzione anche il consumo di digitale, imponendoci la ricerca di informazioni a maggior valore, più ragionate, più selezionate e utili, non cedendo a quell’ “economia dell’attenzione” che ci propone tantissimi stimoli ma ci aliena e riduce la nostra capacità di ricerca e concentrazione.
Un’economia “deviata” che, attraverso algoritmi di cattura, ci porta a “consumare digitale” in modo indiscriminato, senza pensare a quanto danno stiamo recando al mondo reale in cui viviamo.