Ma il Chips Act sogna data center europei?

Molte notizie si rincorrono nel mondo nell’ambito della guerra dei chip ed è difficile metterle insieme in un quadro unico. Proviamo ad elencarne alcune, nella speranza di cogliere quelle che si realizzeranno effettivamente.

Il Chips Act Italiano è una realtà

I numeri parlano di un intervento da circa 700 milioni di euro (per lo più come sgravi fiscali) e di più ampie iniziative collegate. Il Ministero Università e Ricerca titola Trenta milioni in cinque anni perché quelli sono i soldi e non gli sgravi.

Diciamo che la cifra in sé non è grande, se paragonata agli enormi sforzi della Germania, che amplia la propria produzione e tratta con Intel e TSMC per nuova fabbriche. Ma la Germania ha già grande produzione di chip e di prodotti chimici per i vari processi di produzione e noi ben poco, al di fuori della sempre citata STMicroelectronics. Qualche voce era arrivata a riguardo dei chip per il quantum computing, ma si tratta di un mercato che -comunque lo si valuti- oggi è di nicchia.

Un mercato trilionario

Il mercato mondiale dei chip di fine 2022 è stato valutato tra 0,5 trilioni e 0,6 trilioni dove un trilione vale mille miliardi e l’unità di conto è il dollaro -ma l’euro è molto vicino alla parità-. Con una minima estrapolazione, nel 2030 potrebbe valere 0,840 trilioni. L’unione Europea porta la stima a 1 trilione tondo.

Per confronto, il PIL mondiale del 2022 è stato valutato circa 100 trilioni; l’Italia supera di poco i 2 trilioni.

Secondo stime abbastanza ad occhio, Europa e Stati Uniti producono ciascuno il 10% dei chip del mondo, una quota resa ancora meno rilevante dalla ridotta tecnologia impiegata. Entrambe le macro-aree pensano di essere leader nella progettazione di questi dispositivi e di poter delocalizzare la produzione finale.

Arm vale 70 miliardi (ma si speculerà)

Una notizia di più ampio respiro è la Ipo della design house delle CPU mondiali: Arm va in borsa a settembre. Solo questo business viene valutato 70 miliardi di dollari, ma è probabile che le azioni seguiranno andamento speculativo. Apple, Samsung, Qualcomm ed altri colossi stanno trattando l’acquisizione diretta di qualche unità percentuale. Dopo questa mossa, più o meno velocemente ma le cose per Arm cambieranno e quindi cambieranno per tutto il mondo della nanoelettronica che fa riferimento ai loro progetti.

TSMC anche in Germania

Intanto gli sviluppi di TSMC, il colosso impiantato in quella Taiwan che un giorno o l’altro tornerà sotto il controllo cinese, acquistano rilevanza sempre maggiore. In Europa, ovviamente in Germania, sorgerà una delle sue nuove fabbriche da 10 miliardi di euro, 3 anni prima della produzione (numeri minimi di riferimento). Bosch, Infineon e l’olandese NXP sono i partner europei dell’iniziativa.

Per quanto riguarda la TSMC di Taiwan, ci permettiamo di fare un’ipotesi: e se Cina e US avessero un accordo per portare fuori da Taiwan la competenza di TSMC per poi lasciare alla futura provincia riunificata una certa potenza di produzione, ancora utile per la tecnologia cinese?

Diciamo una “certa” potenza di produzione perché probabilmente ci saranno opinioni discordanti sulla residua operatività. L’effettivo aggiornamento dei macchinari di quelle produzioni, e i contratti di futuro approvvigionamento di macchinari aggiornati, sarà frutto di liti e contenziosi successivi alla riunione di Taiwan con il resto del Paese al centro del mondo (il senso dei due ideogrammi con cui si scrive CIna in cinese)..

Una volta tornata in Cina, quella fabbrica varrà probabilmente zero per il resto del mondo, ma sarà centrale per lo sviluppo di una tecnologia interamente proprietaria.

Non tutti i chip sono microprocessori

Forse giova ricordare che parlare di “chp” in senso generico è poco produttivo. Già solo per i microprocessori esistono tantissimi tipi: non solo Arm-based, Intel o Amd, ma crescono anche Risc 5, il chip russo Baikal, il Biren cinese e se vogliamo anche il Kirin di Huawei, operanti in tre fasce di mercato diverse.

E’ ragionevole che a medio termine escano nuovi dispositivi per l’amplissima fascia che va da telefonini e visori fino ai supercomputer come sta riuscendo a fare Arm. Usciranno, ma di lì a fare ecosistema il passo sarà lunghissimo.

Va anche rimarcato che mai come in questo periodo c’è stata tanta comunicazione a riguardo dei “chip” e dell’elettronica collegata. Si tratta di comunicazione generalmente fatta male dal punto di vista tecnico ma che spesso serve ad una grande azienda per mostrarsi ben salda sul mercato della microelettronica.

Geopolitica da social media

Un altro punto rilevante è il modo nel quale stanno cambiando gli equilibri nel mondo anche in conseguenza del bando che gli Stati Uniti direttamente ed indirettamente tramite le altre aziende europee anche giapponesi hanno messo in piedi contro la Cina con la famosa questione di Huawei.

La tensione non si riscontra solo per la microelettronica, ma anche per altri settori quali lo spazio, le auto elettriche ed altro.

Tutto ciò ci porta al piano geopolitico puro, ai Chips Act come oggi li chiamiamo all’americana. Le azioni delle singole macroaree geografiche andrebbero valutate nelle loro interazioni, ma è ovviamente impossibile. La scelta attuale sembra però inutile, in quanto i piani sembrano essere sì dinamici ma inseriti in un contesto statico, come se Cina, India e gli arabi non si adoperino per ottenere il massimo.

I Chips Act sono iniziative politiche volte a favorire o a effettuare direttamente degli investimenti per riportare in casa la produzione di dispositivi elettronici attualmente in gran parte prodotti a Taiwan. Di questi piani si conoscono bene quello europeo, quello statunitense e quello giapponese (Rapidus), di entità più o meno dichiarata pari intorno ai 40-50 miliardi di euro su più anni. Certo gli investimenti stimati negli States sono imponenti, valutati tra 200 miliardi e 280 miliardi di dollari (in Euro poco meno, al cambio attuale). Ma arriveranno anche altri denari, perché negli States il fattore moltiplicativo del capitale privato è dato per scontato.

Esistono anche alcuni interlocutori inattesi, tra i quali l’insospettabile Oman che sta facendo parlare di sé e che con ogni probabilità farà da apripista per un mondo, quello genericamente arabo, che ha tanta sabbia e tanto denaro.

C’è però anche il programma cinese, China IC Fund II, già alla seconda fase, il piano coreano e soprattutto quello indiano, che sta manifestandosi sempre più intensamente. E attenti alla crescita dell’India.

Il Chips Act europeo ha senso?

Soffermandosi un attimo su quello europeo, l’idea di passare da un teorico 10% di produzione di “chip” ad un 20% nel 2030 con un investimento di 40/50 miliardi di euro, dei quali solo 3,3 a bilancio comunitario e il resto dei singoli Stati, appare decisamente velleitario.

Riportare in casa la produzione di chip richiede un’azione su tutta la filiera la cui impostazione è difficile ma la sua tenuta nel tempo lo è ancora di più. I materiali da estrazione, la loro fornitura su livelli più o meno sofisticati, i prodotti chimici di lavorazione, i wafer di semiconduttori, i macchinari per aggiungere/togliere materia ai wafer e infine le stesse fabbriche. Si tratta di un sistema produttivo molto complesso nel quale l’improvvisa modifica (commerciale o geopolitica) delle condizioni può determinare effetti imprevedibili sul resto della produzione e anche sulle fabbriche nuove.

Orbene, al momento sembra che i grandi progetti del futuro, ovvero motori per intelligenza artificiali, grafiche per i mondi aumentati (XR, metaverso, digital twin) e quantum computing siano esclusi dalla rinascita digitale europea. Elettrodomestici e veicoli avranno i loro chippettini, ma la Grande Rete di domani continuerà a correre su data center che non sono sviluppati nel Vecchio Continente.

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